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La bellezza ferita

"L'Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita"

E’ con questa frase che il Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo diventa il palcoscenico di una riflessione che va oltre lo spettacolo. Coltiva l’ambizione di costruire una società nuova intrecciando relazioni tra i talenti e l’umanità. Celebra la bellezza e la forza, lo spazio si dilata nel tempo e sembra volerci accompagnare verso una scelta che passa tra uomo e uomo e dentro ciascuno di noi. Sposta il peso delle cose, delle parole, vibra e coltiva. Ed è così, senza farci caso, che l’arte diventa dimensione della vita pubblica e civile. Arte deriva dal latino ars, vuol dire progettare in maniera armonica, in senso figurato l’adattare o andare verso. Quindi l’arte è vita e movimento e procede dalla sua intima natura.
“Vano delle scene il diletto ove miri a preparar l’avvenire” è la prospettiva che educa alla consapevolezza e alla responsabilità. E’ incredibile che dal 1897 non si riesce a dare paternità a questa frase, ma in questo mistero forse risiede la sua forza, perché non essendo di nessuno è di tutti. 
Oggi voglio scrivere di parole per affrontare attraverso esse la più oscena invenzione dell’essere umano la guerra e raccontarla attraverso l’arte.

Continuiamo questo viaggio

Ma non è sempre stato così. Per molti secoli l’arte è stata elogio della guerra. Le grandi battaglie e le vittorie sui nemici. Non si raccontavano le sconfitte, si esaltavano le figure di grandi condottieri. Autocelebrazione, propaganda e simbolo visivo della potenza di una civiltà, di un popolo, di una nazione. Basti ricordare il “Napoleone a Cavallo” di David, che elevava la figura del condottiero ad eroe. Oppure lo stile littorio, ovvero il linguaggio architettonico monumentale, che esprimeva la grandezza e la dimensione storica del regime fascista. Già a partire dalla prima guerra mondiale però qualcosa muta. Esiste una creazione artistica che viene realizzata sui campi di battaglia, nelle famose trincee, che si avvicinava ad una sorta di attività giornalistica ed era fedele racconto dei fatti, anche della sconfitte e della vita straordinariamente terribile dei soldati. Immagini crude e drammatiche. Ma non c’era ancora la denuncia, solo una fotografia.
Dobbiamo aspettare il 1937 per avere una coraggiosa presa di posizione, con Picasso che sceglie di schierarsi contro la violenza della guerra come uomo e come artista.
Si racconta che Otto Abetz ambasciatore tedesco nella Francia occupata dai nazisti di fronte alla Guernica abbia esclamato: "È lei che ha fatto questo orrore?"
E che la risposta di Picasso sia stata: “Non sono stato io, l’avete fatto voi”.


La Guernica di Picasso 

La Guernica è una crepa nella percezione del male. Svela l’assenza del riconoscimento della colpevolezza e di assunzione di responsabilità delle proprie azioni da parte del carnefice. Naturalmente entriamo nella letteratura. Hannah Arendt rappresentò la mancanza del pensiero nei carnefici, non come incapacità di ragionamento ma come incapacità di un dialogo interiore. La sua non fu un’assoluzione ma una constatazione: la mancanza di coscienza. Otto Abetz non riconobbe in quell’opera il male ma la bruttezza, ne percepì l’orrore come estetica ma non come azioni. Una sorta di auto-assoluzione che gli permise di evitare il confronto con la coscienza. “Ho solamente eseguito gli ordini”, disse ciascuno imputato durante il processo di Norimberga che si tenne qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, superando così il problema della coscienza personale e collettiva e mettendola a tacere

La narrazione dell’artista contemporaneo 

Nel mondo antico l’opera d’arte veniva commissionata dai potenti all’artista. Papi, re, nobili, ricchi commercianti fornivano il denaro e decidevano soggetto, uso e finalità. Si trattava di un vero e proprio contratto legale entro il quale l’artista poteva muoversi. Ciò significava, ed è ciò che possiamo ancora oggi mirare, che le opere erano il riflesso di quel periodo storico, della vita, dei costumi, della politica, dei vincenti e vincitori. Oggi avviene esattamente l’opposto, i pittori dipingono ciò che desiderano. L’artista contemporaneo non è più legato ad un committente, può liberamente esprimere il suo talento in autonomia e offrire il suo punto di vista a volte rivoluzionario per quanto riguarda ogni aspetto della vita sociale, legato sostanzialmente alle conquiste nella politica e nei diritti umani. Così la guerra, prima esclusivo encomio di eroismo, svela anche il suo volto più drammatico e violento e l’arte rimane, nonostante la tragicità del racconto, la componente vitale dell’uomo e un termometro di civiltà.


Torniamo all’inizio di questo breve racconto: "L'Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire"

L’arte ci protegge dal deserto. È memoria che si spinge più in là. Per questo l’arte che è emozione e visione, porta con sé la grande opportunità di stabilire relazioni nuove, nutrire l’animo in questo periodo in cui soffiano potenti venti di guerra. La bellezza necessita di concentrazione, di divenire dono agli occhi più distratti dalla velocità e dalla voracità, ed è per questo che me lascio trascinare dall’arte nel suo significato più “bello” e carismatico.

written by Maria Grazia Motisi

Laureata in scienze politiche, autrice di libri, poesie e prefazioni. Impegnata nel volontariato e nella promozione delle tradizioni e del territorio del partenicese in particolare della rivalutazione artistico e culturale del Borgo Parrini. Ha ricoperto ruoli istituzionali, ideatrice e realizzatrice di numerose iniziative facendo vivere alla città importanti momenti di aggregazione.  Presidente dell’associazione culturale Le Torri e socia della dell’associazione La Via dei Mulini odv.

 

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